Ma dove vado se parto? [2] di Anna Bertini

© Il giardino di Virginia Woolf di Caroline Zoob, fotografie di Caroline Arber, edizioni L’Ippocampo.

VIRGINIA NEI FIORI

Aveva paura di sembrare venale, ma poi no, in fondo non le importava granché. Erano altre le cose capaci di turbarla. Vedeva dalla finestra macchie di colore: dalie, tulipani, la testa sbarazzina del papavero, gli anemoni commoventi che non ce la facevano a tenersi dritti, se si alzava poco vento si agitavano come certi sentimenti dentro di lei: dal loro stelo si protendevano sottili dita a toccare qualche punto dell’anima.

In certi momenti questo posto è di un bello divino: caldo, uccelli , narcisi, cielo azzurro….

La tempera delle pareti – lei la chiamava “verde veronese” – era vivace. Sua sorella Vanessa l’aveva presa in giro per la scelta che considerava poco elegante. A Virginia sembrava offrire il giusto contrasto con il verde là fuori, diviso in campi armonici di tono complementare. Quel verde era pieno di tutta la dignità che solo i viventi del regno vegetale sanno garantire: a lei non riusciva di mantenerla, preda com’era spesso di contrasti interiori e sentimenti scomodi.
Decise di fare una passeggiata per rifletterci sopra. I libri stavano vendendo bene, i suoi e anche quelli pubblicati dalla loro casa editrice Hogarth Press. Lei e Leonard non si dispiacevano del molto lavoro e spesso prendevano in carico di persona le consegne dei volumi, come due “commessi viaggiatori”, eufemismo che Virginia aveva coniato per i loro giri di vendita. Se all’acquisto Monk’s House era una casa molto spartana e priva di comodità, questa si era rivelata comunque la scelta perfetta: si sentiva gratificata di ogni angolo, ogni scorcio. Leonard era così appassionato alla cura del giardino da farne una motivazione di vita.

 … E’ fanatico (…) siamo sani e salvi nel nostro giardino…

Passò un attimo dalla cucina per controllare che ci fossero le cotogne nel cesto prima di passare nel frutteto e coglierne di nuove. Le vide, bernoccolute e gialle: pensò all’aspetto spinoso della pianta nuda, alle bacche simili a quelle dei roseti capaci di generare quel frutto che lei amava nelle diverse varianti, e soprattutto, per la gelatina sul pane a colazione.
Uscì passando dalla scaletta del retro, quella che ora era inondata di sole mattutino e che nella prima notte trascorsa a Monk’s House era stata lavata da uno scroscio di acqua piovana così violento da passare sotto la porta e allagare la cucina. La Clematis scendeva dal muretto dritta, la si poteva quasi calpestare: la evitò spostando il passo verso destra e ne accarezzò la fioritura azzurrina. L’aria era aspra e appena mossa da un refolo. Virginia alzò il bavero della giacca e girò un foulard più stretto alla gola. Non aveva messo un cappello e se ne pentì ma non ebbe voglia di tornare indietro.

Il giardino comincia ora a rinascere con i crochi e l’iris reticolata…

 Guardò le corolle dei crocos che spuntavano da terra: impalpabili, ferme su una gamba esile come le ballerine in una figura acrobatica. Si sentì come loro, cosa fragile sbucata dalla terra, affacciata a un mare di natura dove il dominare del verde era spruzzato di colore disordinato: una tela mai davvero terminata eppure perfetta di un disegno informale. Pensò che il giardino sapeva farsi pittura sfuggendo all’ordine premeditato per donarsi a quello casuale.

… variegato e perfetto: astri, zinnie, geum, nasturzi (…) tutti vivaci ritagliati da carte colorate…

 Si sentì. Si sentiva, si percepiva nel suo essere in quel momento. Fisica, materia di ossa e carne, natura umana pericolosa a tratti per l’altra circostante. Avrebbe colto frutti, avrebbe composto mazzi di fiori: uno o due per il salone, quello per lo studio nel quale era solita mettere lo sforzo compositivo più estroso, e che dopo avrebbe dovuto ispirare la creazione in parole per poi finire sulla pagina scritta. Chissà se questa presenza a se stessa là fuori in giardino l’avrebbe ritrovata al suo tavolo di lavoro, nella concentrazione della testa. Se i pensieri invece sarebbero fuggiti di nuovo. Spesso quando aveva bisogno veramente di sentirsi completa e presente qualcosa si frammentava dentro, sfuggivano pezzi di consapevolezza.

… abbaglia lo sguardo con i rossi, i rosa, i viola, i malva….

 Passò lungo la siepe, seguì il vialetto, uscì nel prato aperto si chinò sulle piante per odorarle, scelse fiori capaci di armonizzare tra loro per comporre i suoi bouquet. Il primo – quello dello studio – lo avrebbe posto in una delle brocche regalatele da amici che si dilettavano con il tornio della ceramica. Un altro nel vaso di maiolica azzurro intenso che le aveva portato Vita dalla Persia. Colse prima dagli arbusti orientandosi alla forma e al colore delle foglie: mai dimenticare la Syringa, e l’Hydrangea. Le piaceva contornare di Alchemilla mollis le corolle dai colori più intensi; quella pianta dall’infiorescenza pallida era capace di smorzare magistralmente il fuoco della dalia Requiem o della rosa Falstaff – una di quelle preferite da Leonard – e dell’Echinacea purpurea. Però si accordava altrettanto bene alla pastosa consistenza delle labbra di un iris cilestrino, bulbo misterioso di cui non erano riusciti a rintracciare il tipo ma che lei amava aggiungere a quasi tutte le composizioni floreali.

… quel che influisce in maniera più profonda e permanente su una persona e sul suo modo di vivere è la casa in cui abita…

Tornò alla sua idea del mattino, quella così pratica quasi frivola, che alcuni avrebbero considerato sconveniente per un’intellettuale, per un’attivista dei diritti. Adeline Virginia Woolf nata Stephen si era svegliata con l’idea di finanziare da sola, coi proventi della sua attività, un bagno e uno scaldacqua per Monk’s House. Voleva avere in quell’abitazione qualcosa di comodo e moderno, come ciò che aveva imparato ad usare a Londra.
Muovendo da Asheham a Rodmell d’altronde tutto pareva bucolico ed essenziale quando il primo settembre del 1919 si era effettuato il trasloco. Il carro del fattore necessitò di due viaggi con il carico dei mobili, le pile di libri e carteggi legati con cura da Leonard perché niente potesse andare perduto. Lo ricordava come fosse ora, non senza una sensazione sgradevole di avventura inaudita.

… la casa determina (…) la qualità il colore, l’atmosfera, il ritmo della vita, è la cornice di ciò che una persona fa (…) dei suoi rapporti con gli altri …

Perché non avrebbe dovuto desiderare di abbellire e rendere confortevole il loro “retiro”, perché non poteva finanziarlo? Era una donna emancipata. Una borghese progressista. Avevano speso molto per curarla dalla malattia, lei e Leonard, è vero, ma ora si stavano riprendendo economicamente. Lei non aveva bisogno di ricorrere all’aiuto di alcuno per concedersi un privilegio. Se lo aveva, era guadagnato. Era frutto della sua capacità e del suo intelletto, del suo essere persona libera. Questo era forse il più grande merito, la qualità che assimila la dignità dell’uomo a quella della natura circonstante: il coraggio di sganciarsi dalle convenzioni e dalle costrizioni sociali per fare della vita ciò che pare più gratificante. Vivere le proprie aspirazioni.

… il ronzio, il canto sommesso, l’odore, tutto sembra premere con voluttà contro qualche membrana…

Virginia guardò i molti fiori appoggiati al suo braccio, un fascio voluminoso di corolle e rami, foglie boccioli. Si girò intorno avida del colpo d’occhio che il giardino offriva, avida del profumo di mattino che la stava avvolgendo. Continuò a voltarsi intorno posando lo sguardo sulle selci del campanile di St. Peter; poi sulle le sagome del frutteto col pero il pruno, il gelso; il posto del fico; l’orto, la fioriera recintata; le mele cadute sul vialetto, l’alchemilla, la digitale spontanea. Aspirò più forte l’aria e continuò a girare intorno finché cadde. Si ritrovò a terra: le braccia piene di fiori recisi e un lieve capogiro che sfuocava i contorni. Come in un quadro espressionista tutto si divise in macchie intorno a lei. Provò piacere e maggiore libertà.

… il lusso di avere acqua corrente a fiumi, bollente, per qualsiasi scopo immaginabile…

Si risollevò da terra sorridendo, scosse un po’ di terriccio dalla lunga gonna dritta che terminava alla caviglia, raccolse tutti gli elementi floreali che aveva selezionato per i suoi bouquet. Tornò sul vialetto, apprezzò ancora una volta la distesa di verde che circondava Monk’s House e fece ritorno alla casa intenzionata a rientrare per l’ingresso principale. Leonard era sveglio ed aveva lasciato uscire i cani che le corsero incontro. Virginia preparò i mazzi di fiori, mise l’acqua nelle brocche e nei vasi, ne portò due nel soggiorno; posizionò un bouquet sul camino e l’altro al centro del tavolo dove i Woolf si sedettero per una colazione frugale. Dopo aver letto alcuni carteggi e corrispondenze, Virginia uscì per raggiungere lo studio portando con sé un’ultima brocca coi fiori. In quella che un tempo era la rimessa degli attrezzi ora regnava silenziosa al centro dell’ambiente la sua scrivania. Sedette, prese il tempo di guardare il prato selvatico e l’ippocastano lasciando la porta-finestra aperta alcuni minuti per rinfrescare l’aria. Stava aprendo una cartella con le ultime pagine scritte, aveva già la matita in mano per cominciare alcune correzioni. Invece si alzò, chiuse la porta. Poi aprì il diario e vi annotò una disposizione: trecento sterline del suo tesoretto personale sarebbero servite per finanziare un bagno e un gabinetto per Monk’s House. Chiuse. Allungò la mano verso le pagine fitte di scrittura.
Era l’aprile del 1925.

Il racconto è ispirato dalla lettura di:
IL GIARDINO DI VIRGINIA WOOLF, storia del giardino di Monk’s House, di Caroline Zoob, fotografie di Caroline Arber, prefazione di Cecil Woolf, edizioni L’Ippocampo.
Le citazioni in corsivo: 1,2,4,5,8,9 sono di Virginia Woolf
3,6,7 sono di Leonard Woolf

© Anna Bertini, 2017

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