Hangover [12]

© foto estratta da Pinterest

L’ORA DEL GIANICOLO

Era nata nell’anno di Caporetto e per scaramanzia le avevano dato un nome che era insieme di un fiore e di un colore. Una bella bambina destinata alla felicità, l’unica femmina di quattro figli, perché Luisa era morta di spagnola e non contava. L’ombrellaia ebrea del resto sapeva mettere al mondo solo creature meravigliose. Non fece in tempo a convertirsi che tutte le signore del paese la chiesero come balia, sperando che attaccasse un po’ di bellezza anche ai loro figli. Che poi di latte ne aveva in quantità incredibile, bastava per i suoi e per almeno tre di quelli degli altri. Ester la balia ombrellaia, quella magra e forte come un uomo, con le splendide tette colme. Gliele avrebbero volute succhiare in tanti, pensava il marito. E infatti il povero David si dannava, e la inseguiva intorno al tavolo con la roncola.
Non devi guardare nessuno.
Non devi parlare con nessuno.
Non devi alzare gli occhi.
Certo, come no.
Lei rideva e rispondeva “prova a prendermi”. Tanto lo sapeva che non l’avrebbe mai raggiunta, visto che non voleva, non voleva davvero tagliarle via quella bella testolina. Lei gli serviva per i soldi che portava a casa, per gli ombrelli, il latte e tutto il resto. Gli serviva la notte, quando allungava le sue mani secche su quel bel sedere tondo, e allora non c’era più niente a dividerli perché lei era sua.
E forse doveva anche amarlo, quell’uomo nato vecchio, di soli otto anni maggiore di lei ma che sembrava suo padre. Solo quando si ama nascono figli tanto belli, lo diceva anche la levatrice.

Rosa era più bella dei suoi fratelli. Più bella di quanto la gente fino a quel momento avesse potuto immaginare. Una benedizione. Perfino più bella della bella Luisa, che aveva i capelli come il grano, e adesso riposava al camposanto. La mamma gliene ne aveva tagliati un ciuffo prima che la chiudessero, e adesso li teneva in un ciondolo che si apriva. Ester stava sempre a baciarlo, quel coso tondo che si chiudeva con un piccolo scatto. Prima baciava sulla testa loro e poi il ciondolo.

Al compimento dei suoi sedici anni, decisero. Il fratello di Ester – per la precisione fratellastro, visto che avevano lo stesso padre ma madri diverse – aveva fatto fortuna a Roma. Anche lui bello bellissimo come tutti in casa sua, aveva sposato una donna ricca e si era messo a costruire palazzi. Adesso viveva in una dimora da re e sua moglie infatti si chiamava Regina.
Rosa si sarebbe trovata bene dallo zio, avrebbe imparato le buone maniere e le avrebbero trovato un marito alla sua altezza. Niente a che vedere con i garzoni, farmacisti, carabinieri e maestri umbri che già cominciavano a mandare piccoli regali e fare piccoli favori alla famiglia.
Via, via. Non avrebbe mai faticato come sua madre. Una così grande bellezza meritava il massimo. Un uomo ricchissimo, meglio se nobile. Meglio ancora se ebreo, che a Ester quella storia della conversione non era ancora andata giù, e non c’era da meravigliarsi che i figli fossero cresciuti tutti strampalati, uno era perfino diventato ateo.

Rosa arrivò a Roma accompagnata da don Pietro che doveva recarsi nella capitale. Venne consegnata a Termini nelle mani della serva, passarono prima a prendere il piccolo Arnaldo a scuola e poi finalmente arrivarono al palazzo. Divenne sorella di suo cugino, figlia degli zii. Partecipò alle lezioni private del ragazzo, iniziò ad amare la lettura, viaggiò, imparò perfino a sciare. Non doveva più rammendare, né cucinare. Nemmeno rifarsi il letto, la zia non voleva e ci doveva pensare Carmelina, che veniva da Trastevere ed era pagata per fare le faccende. Rosa ogni tanto scriveva ai genitori e ai fratelli ma senza una punta di nostalgia. Trascorse così due anni, belli quasi quanto lei.

Quel pomeriggio di maggio Mario fu il primo a soccorrerla. La ragazza si era appena slogata una caviglia. Benedetto Gianicolo, le disse ridendo, e non si accorse della bellezza che aveva di fronte, guardò solo la sua gamba, ruotò leggermente l’arto dolorante, fece qualche considerazione e sorrise. Alzandosi in piedi la salutò con un leggero inchino, toccandosi il cappello in segno di rispetto. Prima di andarsene, le elargì qualche consiglio – ghiaccio e riposo, tanto riposo – insieme al proprio biglietto da visita. Dottor Mario Parenti.
Divenne così il medico della famiglia Fusciani, continuando a non accorgersi di quella bellezza che tutti veneravano.
Rosa intanto tremava. Lui non la guardava, non la vedeva, non la voleva. I suoi malesseri diventavano sempre più frequenti e gettavano nella costernazione tutti quanti. La zia Regina arrivò perfino a scrivere ad Ester, che la piccola dimagriva, era scavata, si vedeva che piangeva. La sua malinconia cresceva al tramonto. Non potevano sapere che quella era l’ora del Gianicolo e che il ricordo dell’incontro la sfiniva, riportandola al momento in cui tutto avrebbe potuto cominciare, e in cui, invece, niente era iniziato. Il dottore veniva, la visitava, prescriveva farmaci, la guardava senza vederla.

In concomitanza con Hannukah, nel dicembre del 1938 gli zii organizzarono una grande festa. In teoria le leggi razziali non avrebbero permesso niente del genere ma in pratica la loro ricchezza poteva rendere possibile tutto. Un ballo per tenere lontana la sventura già toccata ad altri, ma soprattutto per festeggiare i ventuno anni di Rosa, la prediletta di tutti. La zia le aveva comprato una pelliccia nel nuovo negozio di Edoardo Fendi, lo zio un braccialetto a forma di serpente con un occhio di ametista.

Rosa si specchiò per ammirare l’abito color lavanda. L’avrebbe vista, stavolta lui l’avrebbe notata e guardata come un uomo guarda una donna.
Fu da quella posizione che lo vide entrare al braccio della fidanzata. Le teneva un braccio sulle spalle, notò che l’aiutava a togliersi il cappotto. Una ragazza normale, dal sorriso gentile, robusta, con le braccia grassocce. Mario le accarezzava il volto accaldato per la corsa fatta per le scale. La guardava come nessuno aveva mai guardato Rosa, per qualcosa che lei non sapeva definire, non poteva capire né esprimere ma che non aveva niente a che fare con la bellezza. Il modo esatto in cui anche lei avrebbe voluto essere guardata.

Rosa si gettò da quelle stesse scale che avevano appena salito i due fidanzati. Si fratturò l’anca, il femore, il bacino. Se avesse potuto, avrebbe voluto togliersi il cuore dal petto e buttarglielo in faccia.

Tornò a casa in ambulanza, non volle vedere nessuno per anni. Passò la guerra e non la toccò. Sentiva il rombo degli aerei, pregava sperando di venire colpita. Uccisero alcuni parenti partigiani, altri ne deportarono per via della razza. Niente la scosse. Non volle più vedere gli zii, non andò nemmeno al funerale di suo padre. Concesse alla madre una visita al mese, per pochi minuti.
Quando i fratelli le dissero che era un peccato, era ancora bella. Lei chiese: Bella? Sì, le dissero, bella. Ancora hai chi ti corteggia. Ancora ti vorrebbe il farmacista, e anche il salumiere di piazza Di Sopra. Allora lei si decise, e sposò per dispetto un falegname guercio e vecchio, che tanto l’aveva amata prima che partisse per Roma, e che mai aveva avuto il coraggio di dichiararsi a una dea. Ma ne trovò per dichiararsi a una storpia.
Il dolore la scavò e prese possesso di lei. Non aveva niente di fisico, non apparteneva a questo mondo. La possedeva di sera, nell’ora del Gianicolo. Allora ululava, e si sbatteva contro i mobili, e si graffiava la faccia. Chiamarono il prete, che la dichiarò senza speranza. Perfino dio si era voltato di là. Misericordiose, le suore infine le procurarono la morfina. Se la iniettava da sola, sorridendo.

Quando andavamo a trovarla, io e la bisnonna Esterina, prima mi dava un confetto, poi mi guardava dritta in faccia e trovandomi brutta sospirava: «Meno male».

© Roberta Lepri, 2017

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