DoctorWriter [24] di MariaGiovanna Luini

foto di MariaGiovanna Luini
foto di MariaGiovanna Luini

IL ROMANZO DEL MAGISTRATO

Questa pubblicazione a puntate scioglie un destino. E’ il primo romanzo che ho scritto, il romanzo che chi mi conosce aspetta che sia pubblicato perché – pare – la trama piace. Il romanzo finora bloccato: qualcosa si mette sempre in mezzo. E’ ora che queste parole escano e si lascino leggere.
Quando esiste un blocco, Luce ed Energia lo forzano e dissolvono le ostruzioni. Uso quindi Luce ed Energia e dono “il romanzo del magistrato” a puntate ai miei lettori in Sdiario.
E il blocco si scioglie, voilà.

Capitolo 14

– Come è andato il viaggio, presidente? La porto a casa?
– Sì, ho bisogno di dormire. In America e durante il volo ho chiacchierato tutto il tempo. Tanto vale che vada a lavorare domani, adesso è tardi. Sarà libero anche lei.
Peccato per la luce meravigliosa del pomeriggio, dormire la sprecava: sarebbe stato il tempo giusto per la barca.
Accese il telefono cellulare e lo sentì vibrare, c’erano messaggi nella segreteria telefonica. Ascoltò il primo e si annoiò alle prime sillabe: il presidente dell’azienda voleva incontrarlo per conoscere i dettagli del viaggio. Il secondo era la solita breve sintesi delle notizie più urgenti, la sua segretaria gracchiava nel microfono e ci respirava dentro. Scrisse qualcosa sull’agenda, selezionò il terzo messaggio.
– Ciao, papà. Elena e io stiamo bene, ho fatto i compiti. Pizza con i funghi, Elena ne ha mangiato un quarto, il resto sta sul pavimento e sui muri della cucina, sentirai la mamma! Ci manchi, torna subito a casa quando arrivi a Fiumicino. Spero che questo sia il primo messaggio nella tua segreteria telefonica.
Finalmente sorrise: Chiara era come sperava che fosse. Non avrebbe saputo immaginarla più bella, e dolce. E innamorata di lui.
– C’è molto traffico, non possiamo prendere un’altra strada?
– Questa è la migliore, purtroppo c’è tanta gente in giro.
Pensò di telefonare a Gianna, ma sarebbe stato inutile. Un istinto inspiegabile gli fece cercare il numero di Gemma, la chiamò senza pensarci troppo.
– Ciao, Gemma, sono Giuliano. Disturbo?
– Ciao! Non ti vedo da tanto tempo!
Rise.
– Lo so. Chiamo perché mi manchi già. No, sul serio, disturbo? Non ti ho offerto un passaggio.
– Hai fatto bene perché il giorno che salirò su una macchina con l’autista sarò morta, e sarà il carro funebre. Solo gli stronzi come te possono schiavizzare un padre di famiglia chiamandolo autista.
Lasciò che il sole gli scaldasse il viso, appoggiò la fronte al finestrino.
– Certo, vivi a Roma e in Olanda, lavori quando ti pare e ti fermi per scrivere, puoi permetterti di prendere un volo in Magnifica solo per parlare con me ma fai la morale a un dirigente di azienda. Giusto. Per parlarmi hai preso un volo intercontinentale, l’hai notato?
– Figurati. L’ho fatto perché mi andava, avevo il congresso e il figlio dell’amico. Ah, che poi è il figlio di Alberto Voltri, lo sapevi?
– Il professore di Gianna?
– Lui.
– Non ricordavo che avesse un figlio negli Stati Uniti. Comunque senti, quando vai da Gianna?
– Non so. Domani, credo, ma voglio prima capire se lei ne abbia voglia. Non posso impormi. La vado a trovare perché le voglio bene, non per curarla.
– Non ti ho chiesto se pensi che un ricovero possa essere utile, non ci ho pensato.
– Abbiamo parlato senza sosta in un interminabile volo e ti rimane il dubbio che sia impazzita? Sono belle soddisfazioni per me. E dove vorresti ricoverarla? In una psichiatria mascherata da villa del benessere così la riempiono di farmaci o prodotti omeopatici e la rincoglioniscono? E poi perché? Ascoltami, Giuliano, non è una cosa di cui parlo volentieri ma quando mio figlio è morto mi sono chiusa in casa e rifiutavo di mangiare e bere: ricordo Gianna che mi imbocca con pazienza, con il cucchiaino, e finge di niente e mi parla di un sacco di cose senza ottenere risposta. Per settimane mi ha lavata e vestita, messa a letto e tirata fuori la mattina. Lei non ha bisogno di questo, se ne avesse ci sarei io al suo fianco. Quando è uscita dall’obitorio dopo avere firmato il riconoscimento di mio figlio ho visto uno degli inservienti appoggiarle una mano sotto il gomito, come per sostenerla: io ero fuori dal cancello in macchina ma vedevo l’ingresso nonostante la siepe. Ha barcollato, si è appoggiata al muro poi si è raddrizzata. Ha allontanato la mano dell’inserviente. Quando è salita in macchina con me era l’immagine della serenità. Non si è mai lasciata scappare niente, non ho idea di cosa abbia visto. Ma se pensi che sul collo di mio figlio era passata una moto e, dopo, gli hanno espiantato gli organi temo che lo spettacolo non fosse esaltante. All’obitorio non li mettono in smoking. Adesso ha visto questo: tre uomini massacrati di cui uno era il marito. Nessuna persona sana di mente riuscirebbe a sopravvivere senza un periodo di sofferenza intensa.
Il silenzio fu lungo. Il figlio di Gemma: l’aveva dimenticato. Dimenticava troppo, e troppo in fretta. Sapeva cosa Gianna aveva visto quella volta.
– Scusami, Gemma.
– Per cosa? Perché non ti viene in mente che ho perso mio figlio? Non scusarti, a me fa piacere invece: mi consideri una persona e non una donna traumatizzata. Detesto la pietà. Preoccupati il giusto per Gianna, non troppo: una parte di dolore è necessaria per crescere e andare fuori dal trauma. Un giorno riprenderà a parlare.
– Magari passo da lei e provo a stimolarla.
– Passa da lei e basta, non cercare scuse per vederla. Vai da lei, è una cosa che vuoi fare e anche lei ne ha voglia.
Il calore del sole divenne eccessivo. Si tirò indietro e alzò la voce, uscì stridula.
– Ma cosa dici?
– Uh, ma sei veramente suscettibile. Vacci, non c’è niente di male. Non offenderti, sei permaloso. Le fai bene di sicuro, questo è un fatto.
– Il tuo tono non diceva solo questo.
– Ovvio. Se vuoi che ti riveli l’intera opinione che ho, devi solo stare attento a una confusione di piani affettivi tra voi. Non è un mistero che ci sia sempre stata sintonia. Chiamiamola attrazione, dai, che è meglio.
– Gemma, scusami ma devo chiudere. Ho un’altra chiamata importante.
Gemma lo salutò, rimase in silenzio. C’erano argomenti che non dovevano essere affrontati: nei giorni del viaggio aveva scacciato anche quelli, aveva rimosso il desiderio di tenere compagnia a Gianna con la consapevolezza della loro libertà: Riccardo non sarebbe ritornato a casa e Valeria era niente. Prima di partire aveva sognato Gianna con lui in aereo, e nel letto dell’albergo: era stato un momento, le immagini gli avevano invaso la testa senza che riuscisse a fermarle.
– Per favore, prima di andare a casa voglio passare da mia cognata. Mi porti a casa di Riccardo.
Pensava bianco e faceva nero. Avrebbe dovuto rinunciare, scegliere un momento di maggiore serenità ed equilibrio. Invece no, il cervello non governava le azioni. In fretta compose il numero di casa, fu Valeria a rispondere.
– Ciao, sono io, come stai?
– Ciao. Sto come sempre e tu?
– Bene, grazie. Le bambine?
– Sono in camera, ti aspettano.
– Tornerò tardi, non posso venire a casa. Ho un impegno per cena.
– Quale delle tue troie è di turno questa sera?
Chiuse gli occhi e respirò a fondo un paio di volte.
– Vado a vedere come sta Gianna.
– Quindi questa sera è di turno Gianna. Troia di lusso, nella tua scala di priorità. Mi sembra equo, dopotutto, e anche piuttosto banale. Ma so che tornerai presto: non dà il tipo di soddisfazione che cerchi! Scopala se vuoi, ma sarà una noia mortale. Niente giochini come piacciono a te. Non credo abbia mai usato le labbra come faccio io.
– Sei impazzita? Queste cazzate le dici con le nostre figlie in casa?
La sentì camminare, poi percepì il sussurro.
– Rifletti, Giuliano. Hai deciso di non parlare più con me da quando Giuseppe ha letto quella cazzo di lettera, mi hai buttata fuori dalla tua vita e posso anche capirlo. Non ti giustifico fino in fondo perché non hai nemmeno tentato di parlarne con me, ma capisco. Non ti ho mai tolto l’affetto o il sesso che chiedevi, stavo anche con te e non solo con Riccardo e lo sai benissimo, ma fai come ti pare. Considera però che le bambine non sanno dei nostri casini. Ma non aspetterò molto. Siamo una coppia con due figlie, non puoi comportarti come se tutti i diritti ti fossero dovuti. Vai dove ti pare, dovrai ritornare qui. E vedremo.
– Vedremo cosa?
– Vedremo, ho detto che vedremo. Non sono felice della situazione, non ci sto. Voglio che parliamo e troviamo una via per andare avanti.
– L’unica via è ognuno per la propria strada.
Valeria chiuse la comunicazione, non la richiamò. Per qualche minuto dovette dominare la voglia di correre a casa per picchiarla, voleva farle male, poi si lasciò vincere dalla stanchezza. Chiuse gli occhi. Sentì scivolare via la rabbia insieme alla coscienza. Si addormentò, scosso dai sobbalzi dell’automobile.
– Dottore, siamo arrivati.
La portiera era aperta, Gianna lo osservava sorridendo. Scese e la abbracciò, la sensazione di essere nell’unico luogo possibile.
Dopo cena pensò di accompagnare Gianna in camera da letto, si spogliò e si stese vicino a lei. Gianna chiuse gli occhi e sentì le braccia e il corpo stretto al suo. C’era calore, finalmente.

© MariaGiovanna Luini, 2016

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