Corteggiamenti [23] di Alessandro Morbidelli

Corteggiamento #23 _Aria

ARIA

«Che c’è? Ha qualcosa da ridire?» gli dicesti guardandolo dritto negli occhi.
L’uomo abbronzato, col colletto della Polo all’insù e millemila braccialetti d’oro, storse la bocca, biascicò un “che schifo” e poi chiamò il cameriere. Chiese un altro tavolo, sempre all’aperto, però magari un po’ più vicino al mare e un po’ meno vicino a noi. Spense la sigaretta nel portacenere e si alzò, accompagnato da una signora che mica l’aveva capito quel che era successo.
Tornasti a guardarmi ed eri bella come certi ricordi d’infanzia quando li sogni.
«Ascoltami. È la prima volta che mi senti fare una cosa del genere…» mi dicesti, «… ma capisci a me: se stiamo insieme, condividiamo tutto. Le tue scarpe da tennis, i tuoi fazzoletti di stoffa da mettere in lavatrice, perché l’ho visto che non usi quelli di carta, e poi le cacche, i sudori, gli umori, tutti gli umori, ognuno secondo quel che gli compete, ci mancherebbe, e le arie, sì. Pure quelle…»
Ecco, io in quel momento mi innamorai di te.
Prima di lasciare il romantico ristorantino in riva al mare, andasti al tavolo dell’abbronzato. Pensavo volessi scusarti: «Le ha dato fastidio, prima?» chiedesti. E quello: «Certo! Le sembra educazione?». E tu: «Mi faccia capire… lei fuma una sigaretta e me la soffia in faccia. Ma sta all’aperto, è un suo diritto spifferare nicotina, benzopirene e toluene nei miei polmoni, giusto?» dicesti.
«Senta, la Legge consente di…»
«Non c’è una legge che proibisce di scoreggiare. Quel gas lì non fa male a nessuno…»
E calò il sipario.
Qualche tempo dopo decidesti di presentarmi a tua madre. Io già lo sapevo, che stava male. Ammiravo quel tuo passare da lei tutti i santi giorni, in clinica. Ti aspettavo fuori finché un giorno mi hai detto dai, vieni anche tu.
Così entrammo nella sua stanza, color pesca alle pareti e verde menta alle tende. Ti riconobbe subito. E tu iniziasti la pantomima: «Mamma, non sai quello che è successo oggi!» e lei, con l’espressione preoccupata e il mento tremante a chiederti «Dimmi! Cos’è successo?».
«Un tipo mi ha rotto un dito mentre chiudeva un cassetto!» gli dicesti e lei a strabuzzare gli occhi: «Fa’ vedere, piccola mia!»
Tu gli offristi la mano, lei ti prese l’anulare con la delicatezza di un cuore al suo primo battito, e tu tram! Gliene sparasti una che mi fece prendere un colpo, non me l’aspettavo!
Ma tua madre si mise a ridere così forte che le vennero le lacrime agli occhi: «Che matta che sei! Però hai ragione! C’è più posto fuori che dentro!» e giù, tutti a ridere, e pure io. Come due scemi. Io e te. Lacrime veloci sulle tue gote rosa. Lacrime lente sulle sue.
Così, ogni giorno, per i successivi tre anni, siamo stati in clinica. Ogni volta le hai ripetuto la storia del dito. Che te lo aveva rotto un tizio, che lo avevi incastrato nell’ascensore, che ti ci si era seduto sopra un cane, e così via. Che fantasia! E che bombe, subito dopo!
Tua madre rideva. Tu con lei. E io con voi. Non mi hai mai presentato come il tuo uomo, in realtà. Si sarebbe dimenticata di me dopo nemmeno un minuto. Tu eri l’unica di cui si ricordava. L’unica che la faceva preoccupare per quel dito rotto. L’unica che la faceva ridere fino alle lacrime.
Quando morì, in qualche modo ti trovai serena. Tu sapevi. Lei sapeva. Eravate insieme. Eravate apposto.
Eppure oggi, qui, davanti al prete e all’altare, c’è qualcosa che ti tormenta e questo tuo vestito bianco è un po’ cupo. Colpa dell’ossuto pretaccio, a dirti di scrivere qualcosa in memoria di lei, un pensiero da leggere ai presenti. Facciamoli piangere, in poche parole. A te questo compito. A te, che per ogni momento con lei hai avuto in premio una risata sincera.
Così ti senti confusa. Non hai scritto niente. Il volto del prete è scuro e tu ti senti incompleta. Come se mancasse davvero, il suo ricordo. Ma credo che ci troviamo sempre dove ci dobbiamo trovare. Che ogni nostra presenza sia giustificata e abbia un perché. Allora trovo un senso anche per me. Quando arriva il paggetto con gli anelli, il pretaccio dice che possiamo scambiarci le fedi. Io prendo la tua e poi la tua mano. Ti guardo negli occhi e, prima di infilarti l’anello, ti capisco davvero.
Ti tiro il dito.
Solo un secondo, per non avere più alcun dubbio, lo leggo nei tuoi occhi. Poi…
Tornano i sogni di certi momenti d’infanzia. Torna la delicatezza di un cuore che batte per la prima volta. Si accende il tuo bianco.
Ti volti verso i presenti e tram! Lunga e prepotente. Che grancassa di marcia nuziale!
Rimangono tutti senza parole, le bocche aperte.
Solo noi ridiamo. Io, te e tua madre.

© Alessandro Morbidelli, 2015

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1 commento

  1. Complimenti Alessandro, sei proprio forte!!

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