BELLA COME LE COSE FINTE

BELLA COME LE COSE FINTE

Mi ascolti, anche se non sembra, anche se lo so io soltanto, io, che lo credo. Occhi diritti davanti a te a non guardare, il vestito leggero di seta marrone chiaro con i pois panna e le spalline sottili sulle spalle coi laccetti a legare che io stesso ti ho allacciato con gesti lenti come dentro una liturgia sacra; il vestito che io ho scelto per te soltanto una settimana fa tra altri cento dentro questa boutique del centro e che non potrei tollerare di vedere indossato da una qualunque che non sei tu. Hai il corpo asciutto e liscio che ho lasciato pochi giorni fa e che adesso ritrovo identico, un corpo che conosco a memoria: bianco e perlato, così deciso e immobile che quasi potrebbe continuare a ricevere tutti i colpi che la vita sa dare senza subire il minimo mutamento.

Mica come me che sono sconfitto e ferito da questa gente attorno che si ferma e ci guarda mentre ti afferro un braccio e lo tiro giù in maniera troppo irruenta, forse per paura, forse per mestiere. Gente che passeggiando dà un’occhiata distratta ai miei gesti e ai tuoi, conseguenti e logici, gesti senza errori; matematici. Gente che non voglio attorno, che evito perché mi evita e anche se non lo facesse io starei dall’altra parte. Dalla tua.

Perché non mi piace il parlottare chiarificatore delle persone, il loro salmodiare dentro esperienze che non sono le mie. Non mi piace il loro odore, il tono acuto dei consigli che prende la forma a punta degli spilli che uso per il mio lavoro. Non mi piace la loro frenesia isterica, il battito dei cuori che avverto dentro gli abbracci. Mi respinge il respirare in cadenza di un corpo qualunque accanto al mio nella penombra di una stanza; mi ripugna il tocco delle dita altrui sulla mia pelle, il fruscio dei polpastrelli disegnati a minuscoli cerchi concentrici da impronte digitali singolari e irripetibili.

Mi devasta lo spostamento delle pupille a scatti, l’incessante rintocco delle palpebre come saracinesche rumorose – aperte chiuse riaperte – a definire un ciclo dentro una successione continua e irritante. Fuggo lo strofinio della cute dentro le carezze, il calore umido e ributtante che si accompagna a tremiti, rumori, tocchi, palpitazioni. Mi nausea sentire il masticare cadenzato dei denti a spappolare cibo, l’interesse ottuso per le vite degli altri, lo scricchiolio delle ossa dentro i gesti disarmonici e sconvenienti. Il tanfo dei capelli, i loro nodi, la loro crescita inavvertibile eppure così evidente nei centimetri di colore opaco. Le lacrime di sale a ricordare la condizione miserevole e penosa, il sudore delle emozioni, il ghigno delle risate sguaiate a mostrare denti feroci e violenti.

E allora scelgo di restare qui e ti parlo ancora, anche se non dovrei, anche se mi sono ripetuto migliaia di volte che farlo non è opportuno e che, tutto sommato, è inutile perché queste cose le conosci già, in fondo te le ho ripetute mille e mille volte fino allo sfinimento, fino a non avere più voglia di ridirle soltanto per non sentire ancora la mia stessa voce dentro le orecchie che risuona. Tuttavia, sminuito dalla tua assenza, torno qui dentro, ti racconto dei miei passi incerti, del mio essere assoggettato a te e perfino a questo stesso spazio in cui ci siamo sperimentati, in cui ci muoviamo.

Uno spazio soffocante e oppressivo eppure intimo, unico nel suo apparire; perché proprio qui dentro ti racconto delle ore passate fuori da solo, dei miei pensieri che ripercorrono il mio tempo con te passato a spogliarti con le mie mani sudate e il tuo respiro sospeso nell’attesa, a indugiare. Ma non ti riguarda il mio mondo – e questo potrei capirlo – perché ti ostini a sottovalutarlo, ci rimani dentro sospesa come qualcuno che è stato posato in un posto che non è il suo ma che, tuttavia, resta a disposizione di chiunque possa passare da lì e chiedere qualcosa per sé. Qualcosa che non ti riguarda, che non ti intesserebbe.

E intanto tu ti presenti – ragionevolmente – distante e distratta dai miei quotidiani accesi come braci roventi sotto la pelle, dai miei dubbi che trapanano le ore e le rendono crivellate come una rete a maglie larghe dentro cui poco resta imbrigliato ma piuttosto quasi tutto scivola via a perdersi, come una scia d’olio nero, in discesa ripida.

Eppure chissà se da qualche parte di te si fermeranno le emozioni che ti porto in braccio, le ritroverò magari mentre con le dita percorrerò il tuo profilo mentre i lampioni mi ricorderanno la fine di questa giornata, e allora chiuderò il neon di questa vetrina e potrò lasciarti qui, con questo vestito che dovrò toglierti insieme agli spilli e al nylon usato per appendere gli orli a simulare brezze di vento inesistenti. E ti verrò a cercare, tornerò per cercare quell’umanità che sogno dentro te, o addosso a una donna che finalmente ti possa somigliare, snodata ed eterea.

Bella come le cose finte, di una bellezza stramba e respingente. Bella senza suono, senza tempo, lontana dai sensi comuni e sempre a portata di mano, una sconosciuta con la resistenza della tua plastica di manichino, con la pietà delle tue pupille bianche e precarie. Una signora dalle ore lontane eppure immediata, che mi difenda dal ticchettio animale del mondo. Ritornerò qui domani – se intanto non la troverò identica a te – ritornerò e mi sentirò felice di nuovo, perché felice mi fai.

© Katia Colica, 2017

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