Amori di merda [20]

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TI PRENDO E TI PORTO VIA

Tutti dicevano che era la migliore edizione degli ultimi duecento anni, sia in termini di affluenza che di vendite. C’era il grande romanziere venuto da un altro mondo, intervistato da uno scrittore ancora più grande (anche se in calo di popolarità). A seguire, il giornalista dominante su questo e molti altri sistemi solari: intervistava il critico militante saggio e schivo, sempre nella sua corazza blu cobalto, sempre contro. E poi c’erano i venditori venuti da ogni parte dell’universo. Smerciavano tazze, centrifugatori, estrattori di plancton, magliette con i disegni di guerre galattiche. Avevano pagato per stare lì, e perciò a buon diritto potevano definirsi librai, anche se non vendevano libri, perché chi paga ha sempre ragione, e quindi può fare e dire ciò che vuole. Al centro dell’arena – secoli prima era stata un capannone in cui venivano assemblate robuste astronavi – c’erano cuochi scrittori, che spadellavano cose qualsiasi e poi le servivano su un piatto d’argento, in modo che ognuno potesse assaggiarle con facilità, sentendosi ospite speciale e riverito. I poeti che si erano auto pubblicati, invece, tenevano la loro merce ai lati degli spazi riservati alle case editrici, che si vantavano con cartelloni al neon. “Chiunque può scrivere”, era il loro motto.

Di fondo c’era un fastidioso brusio da alveare, rotto da annunci metallici e impersonali. Gli altoparlanti gridavano in tutte le lingue possibili le parole di quelli famosi, di quelli meno, di quelli per niente. Tutti, dal primo all’ultimo, facevano parte di quel complesso sistema che era oscuro perfino a loro.

E in mezzo a tutto ciò – vera protagonista – una folla colorata, stanca, sempre più stanca e infine sfatta; affamata, con organi per l’evacuazione pieni, ma sempre con la curiosità di sapere, con la voglia di vedere. Un evento in più, una celebrità da scannerizzare e mettere nei files della memoria collettiva che sarebbe stata cancellata allo scadere del tempo previsto. Avevano pagato un biglietto molto costoso e parcheggiato le astronavi un po’ ovunque, con un pedaggio stellare triplicato rispetto a quello usuale. Però erano tutti sorridenti, se pur accalcati per una tazza di estratto verde, pigiati contro le colonne di cristallo, deformati dal peso del corpo degli altri, dalle pinne, dalle branchie e dalle pellicce. Brutto periodo, quello della muta. C’erano ciuffi di pelo ovunque. Tutti loro – proprio tutti – avevano il desiderio di scrivere. E infatti tutti scrivevano, nei files delle loro menti.

Lei si guardava intorno senza capire. Aveva tanto desiderato di poter visitare quel luogo. Ognuno di quelli che aveva amato e che se ne era andato, le aveva detto che lì, e lì soltanto, avrebbe potuto trovare la felicità che cercava. Qualcuno che la scegliesse e la portasse via, dandole un posto nel mondo. Ma nessuno sembrava fare caso a lei. Tutti indossavano gli occhiali di ultima generazione per la stimolazione del cervello. La gente, da qualsiasi pianeta provenisse, aveva smesso da secoli di essere triste e provare passioni devastanti. Nessuno poteva più dire di sentirsi depresso, né di riuscire ad amare.

Così lei attese per le tre settimane del Salone intergalattico del libro d’autore, silenziosa e diligente, un po’ vergognosa per la sua veste vecchia. Sola, messa in un angolo, un po’ discosta dagli altri.

Fu nell’ultimo giorno, quello tradizionalmente riservato agli sconti, che lui la vide. La sua femmina si era fermata tre passi indietro, conquistata dalla copertina iridescente di un manuale di musica. Lui si fermò, aggrottò la fronte, poi improvvisamente un sorriso spianò tutte le pieghe del suo viso mutante. I suoi tre organi propulsori di linfa presero a battere all’unisono e quasi si spaventò, per l’effetto terribile di quel rumore dentro il suo esoscheletro. La scrutò, le fece una carezza e mormorò qualcosa. In quel preciso istante, la sua femmina ebbe uno scatto e tornò verso di lui, forse temendo un pericolo.

“Non vorrai portare sul nostro mondo questa roba schifosa? Lo vedi che è macchiato? I veri libri devono avere copertine nuove e lucide, colorate e bellissime. E soprattutto dentro devono essere puliti. Creano bellezza, devono essere perfetti.” disse sgranando i sui ventisei occhi. E così, per farsi capire meglio, sfogliò con il tentacolo la copertina del manuale che aveva appena acquistato. Naturalmente, non conteneva una sola parola. Aveva solo pagine bianche, come tutti i libri di quell’universo. Lui ritrasse la mano, vergognandosi un poco per aver desiderato una cosa tanto strana e brutta.

E Alice rimase sola, perduta in quel paese che non sapeva più leggere il suo nome.

© Roberta Lepri, 2015

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1 commento

  1. FORSE NON ERA NEMMENO COLPA DELLA COPERTINA VECCHIOTTA: FANNO SEMPRE LA LORO FIGURA NEI SALOTTI RADICALCHIC DI OGNI UNIVERSO.
    MOLTO PROBABILMENTE NON AVEVA PIU’ UN’ ANIMA, O FORSE NON L’AVEVA MAI AVUTA: CON VENTISEI OCCHI LA FEMMINA CI VEDEVA LUNGO E NON VOLEVA PEZZI DI GHIACCIO AUTORIFLETTENTI IN GIRO PER CASA.
    FORSE
    JULIET

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