Amori di merda [16] di Roberta Lepri

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Katsushika Hokusai, pescatrice di awabi e piovra, 1814

L’unico sorriso di Ling

Al risveglio Ling aveva la gola irritata. La sensazione esatta: come aver inghiottito una lisca e che quella si fosse andata a rifugiare in un angolo irraggiungibile e sensibilissimo dell’esofago. Anche il fumo le causava bruciore e irritazione ma al maestro piaceva. La metteva nuda a gambe larghe, di notte, a guardare la luna. Prendeva la pipa e gliela porgeva in silenzio. Lei annuiva, la accendeva, metteva un gomito sul davanzale, tirava indietro la testa per vedere meglio il cielo stellato e divaricava un po’ di più.

Lui non diceva niente, rimaneva a guardarla respirando la dolcezza dell’oppio, le mani lungo i fianchi, con l’espressione di uno che cerchi di ricordare qualcosa. Poi cominciava a lavorare. La notte prima, però, Ling non aveva fumato e nessuna lisca le si era conficcata in gola. Si era addormentata serenamente e lui non l’aveva svegliata. All’alba, quando si era destata, lui non c’era più. Forse era andato per strada, a cercare di vendere qualcosa. Una faccenda non molto onorevole, per un maestro. Quelli erano i tempi, purtroppo.

Si sistemò in fretta e, dopo aver indossato il kimono blu, anche lei uscì. Provava ancora quella sensazione di fastidio, che cercò di cacciare via specchiandosi nella vetrina del calzolaio all’angolo della strada. Giocherellò poi con le foglie dei cavoli esposti dal fruttivendolo, in modo sfacciato, sicura della propria bellezza. Certa del perdono che la gioventù le accordava, come un credito nei confronti delle vite degli altri. Lei era Ling, la donna del desiderio, la ragazza senza sorriso. L’intoccabile modella del Maestro, che così la voleva: nuda e triste. Era giunta bambina nella casa del più rispettato tra i vecchi pittori e lui le avrebbe, a tempo debito, trovato un marito e una dote. Quando il suo corpo non avesse più avuto il colore dell’avorio e la consistenza del pane.

E’ ancora presto, penso Ling, portandosi una mano alla gola e raschiando le corde vocali con il gorgoglio della saliva.

Fu risalendo la strada che vide le piovre nel secchio del pescivendolo e si ricordò dei tentacoli sulle gambe, sulla pancia, sulle guance, a salire. Nelle orecchie, a sfiorare gli occhi e infine nella gola, che aveva spalancato, come le porte di un tempio nel giorno della festa, per permettere al tentacolo di entrare, viscido e duro. E si rivide distesa, finalmente amata, la bocca della piovra grande sul suo sesso; e insieme la piccola piovra, contemporaneamente, ogni tentacolo di entrambe a occuparle gli spazi del corpo.

Era quello il piacere che aveva dimenticato, dopo che il maestro Hokusai aveva terminato il dipinto. L’unico amore che le venisse concesso.

Le piovre, morenti, la guardarono. Lei si ricordò di aver avuto senza ombra di dubbio una morte diversa quella notte, nel sogno proibito.

E finalmente sorrise.

© Roberta Lepri, 2015

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