21 grammi sulla pelle [4] di Viola E. Miller

La donna violentata, di Federica Gagliardi
La donna violentata, di Federica Gagliardi

AL FREDDO E AL GELO

La vergine tratteneva il bambino tra le braccia. Suo figlio.
L’ambiente era umido,  claustrofobico, sotterraneo. La cantina della casa scavata nella roccia nera. C’erano scatole sparse ancora con i bossoli del fucile del nonno.
Si gridava al miracolo: la Donna nera, bizantina, aveva dato alla luce un figlio.
Il padrone di casa, suo salvatore da non meno di ventiquattr’ore, la ospitò per compassione, tolta da una strada trafficata da sole puttane, dove lei era lì, mentre in disparte allattava quella cellula appena nata, seduta su di una sbarra di accesso a un tratturo.
Lui la vide, ne rimase folgorato, una bellezza nera che battezzò: “la Vergine”, nella sua convinzione che divenne ostinazione.
I clienti la volevano più delle altre. La penetravano nel dolore dell’attesa, l’intimità violata due volte. Senza il rispetto.
Lì, all’Inviolata, dove come in un gioco di parole tutto era normale, nessuno se ne dispiaceva. Tranne lui, quel giovane salvatore che raccolse la sua Madonna e le diede riparo.
Gli studi teleologici non gli permettevano ancora di elargire assoluzioni, ma la confessò lo stesso. Doveva salvare quell’anima nera.
La cantina era come una Chiesa. Le promise vita eterna.
Il bambino, che fino ad allora era stato tra le braccia della madre, fu raccolto in una coperta e adagiato in una bagnarola vicino alla stufetta a gas.
La donna si protese in avanti, verso il giovane e lo abbracciò.
Restarono immobili per qualche minuto.
In quel frangente si smosse il sangue nel corpo del giovane, non abituato ad alcuna forma di gratitudine.
L’odore dei capelli, l’odore della pelle, la bocca che quasi le sfiorava il collo.
Il salvatore fu preso da un desiderio accecante. Iniziò a baciarle la nuca, poi le labbra. Lei ricambiò facendo finta di amarlo. Sapeva come fare. Si inginocchiò.
Gli sbottonò i pantaloni. Infilò una mano negli slip e gli tirò fuori l’uccello. Era duro, lo prese nella bocca. La testa iniziò a muoversi avanti e indietro.
Il giovane risultò impacciato, era la prima volta. Chiuse gli occhi, l’immagine di quelle labbra gli rimbalzavano nella testa, come se gli comprimessero il cazzo in una fica stretta.
Aprì gli occhi. Scorse dei lacci alla sua destra, vicino a uno degli scatoli. Allungò un braccio e li raccolse.
La spinse all’indietro con la schiena contro la parete di roccia. Le legò i polsi.
Le disse di non preoccuparsi. Da lì a poco sarebbe ritornata libera.
Gli occhi gli divennero giganteschi, la voce si ingrossò.
Le allargò le gambe e iniziò a penetrarla con le dita, prima una, poi due.
Sempre più forte, la resistenza delle labbra cedeva.
Le dita aumentavano. Il dolore aumentò.
Le urla della vergine si perdevano tra le pareti scavate.
Fuori il silenzio.
Il pianto del bambino si fece più forte, il calore emanato dalla stufetta non era lo stesso della mangiatoia col bue e l’asinello a proteggerlo dal freddo.
Nessuno si risvegliò più dopo quella notte, il trauma passò inosservato agli occhi di tutti, ma quell’essere continuò a nascondersi nell’ordinario dei gesti comuni: come l’assolvere e il conferire giuste penitenze alla gente del luogo.
Il bambino non crebbe nella società, rimase il figlio nero frutto di una vergine e di un padre che di eterno non aveva neanche un nome proprio. Fu abbandonato al freddo e al gelo di una grotta.
Lei divenne la parete nera scavata nella vergogna.

Dolce Bambino,
io ti vedo qui a tremar.

Oh quanto ti costò
l’ avermi amato!

E vieni in una grotta
al freddo e al gelo!

E vieni in una grotta
al freddo e al gelo!

©Viola E. Miller, 2015

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